La messa al bando dei nuovi veicoli endotermici in Europa dal 2035 segna la fine delle auto convenzionali. La transizione tecnologica è inevitabile. É tempo di abbandonare pregiudizi e false narrazioni e di darsi da fare per accompagnare la transizione.
Game over. Con una decisione storica, il 28 giugno scorso, il Consiglio dell’Unione Europea ha confermato la scelta già espressa tre settimane prima dall’Europarlamento: a partire dal 2035 non sarà più possibile in Europa immettere sul mercato nuove auto e furgoni a combustione interna. Il traguardo fissato, che dovrà essere confermato a valle della fase trilaterale tra Commissione, Parlamento e Consiglio UE, riconosce la centralità della decarbonizzazione dei veicoli nel contrasto al cambiamento climatico. I trasporti, automobili in testa, sono infatti la principale fonte di emissioni climalteranti[1] e azzerarne l’impatto diretto significa dare una chance di successo alle politiche di mitigazione del cambiamento climatico. Le auto che venderemo dal 2035 in poi saranno a zero emissioni al tubo di scappamento, consumeranno un terzo dell’energia odierna per compiere la stessa distanza, saranno alimentate da energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili per oltre il 50%, come delineato dai piani energetici nazionali. E saranno silenziose. Per la tecnologia, pur chiamata ancora ad affrontare sfide importanti (ma superabili), si tratta di un notevole passo in avanti. E il declino del motore endotermico è ormai segnato.
Perché le auto ad alimentazione fossile non sono diverse da ciò che furono le pellicole fotografiche e le nikon analogiche, le videocassette, le macchine da scrivere e i compact disc. Tecnologie del passato, destinate a diventare pezzi da museo. Con la non trascurabile differenza però, che in questo caso l’upgrade tecnologico risulta essere un’azione indispensabile per riuscire a centrare l’obiettivo zero emissioni nette 2050 e (tentare di) salvare il pianeta dalla catastrofe climatica. Per questo è necessario che la transizione avvenga in tempi utili.
Purtroppo, in Italia, il dibattito sul tema sconta ancora la presenza di diffusi pregiudizi (pur se costantemente smentiti dalle cifre e dalla realtà). Gli operatori del settore fossile, con il sostegno (e per voce) degli schieramenti politici più conservatori in Europa (in primis il nostro Ministro della Transizione Ecologica), sono attualmente impegnati in una difesa a oltranza di una tecnologia anacronistica, legata agli interessi dell’economia fossil-based.
E così si continuano ad alimentare false narrazioni (che screditano le perfomance degli e-vehicles, che seminano il terrore in materia di monopoli asiatici presunti incontrovertibili, di perdita di posti di lavoro, solo per portare alcuni esempi), a giustificazione – in realtà – di un immobilismo politico in materia di politiche industriali e sociali che di sicuro non giova al nostro paese. Facciamo chiarezza.
La nuova tecnologia è migliore della precedente
Il Ministro della Transizione Ecologica italiano Roberto Cingolani in occasione di un recente Question Time al Senato, ha difeso gli incentivi alle auto euro 6 e alle ibride. La verità, dicono invece i numeri, è che le auto tradizionali non reggono il confronto. Tre volte energeticamente più efficienti, con bilancio di emissioni di CO2 dell’intero ciclo di vita inferiore già oggi del 65% rispetto a una corrispettiva auto fossile, (e che può solo andare migliorando grazie al progressivo inverdimento dei mix di produzione elettrica), zero emissioni al tubo di scappamento, minore inquinamento acustico. Dal punto di vista dell’utilizzo delle materie prime il paragone è ancora largamente a favore dell’elettrico. Un’auto diesel nella sua vita utilizza circa 13.500 litri di combustibile diesel (o 17mila per un veicolo a benzina) che vengono irreversibilmente bruciati emettendo in atmosfera CO2 e gas tossici, come gli ossidi di azoto che solo in Italia causano oltre 10.000 morti premature all’anno. A conti fatti, si stima che in un’auto elettrica si utilizzano circa 160 kg di metalli, una quantità che potrebbe ridursi sino a 30 chili, grazie alle strategie di riciclo delle materie prime, sulle quali sta lavorando il nuovo regolamento europeo sulle batterie in via di definizione. In termini di peso parliamo di un quantitativo circa 300-400 volte inferiore a quello utilizzato da un’auto endotermica. L’introduzione di nuove chimiche e nuovi metodi estrattivi dei materiali e lo sviluppo di batterie allo stato solido permetteranno inoltre l’assemblaggio di accumulatori dotati di maggiore densità energetica ovvero con l’impiego di quantità di materiali sempre minori. Nel 2030 ad esempio si prevede che la quantità media di litio richiesta per un kWh di batteria ammonterà a 50 grammi contro i 100 del 2020. Nel corso del decennio l’ammontare unitario di nichel richiesto si ridurrà di un quinto (da 480 a 390 grammi per kWh) mentre la quantità necessaria di cobalto calerà di oltre 3 quarti (da 130 a 30 grammi).
In altre parole, la tecnologia verso cui stiamo andando è considerevolmente superiore di quella che ci lasciamo alle spalle e non potrà che continuare a migliorare.
I combustibili sintetici non hanno un ruolo da giocare in questa partita
I combustibili sintetici (e-fuels), come anche i biocombustibili, che i nostri ministri dello Sviluppo economico e della Transizione Ecologica, sostengono fortemente in nome della neutralità tecnologica, non hanno un ruolo da giocare nella partita della decarbonizzazione del settore auto. Essi rappresentano piuttosto una pericolosa distrazione, nonché un possibile “cavallo di Troia” per mantenere in vita i motori endotermici ed il relativo mercato del petrolio. In termini di performance ambientali gli e-fuels sono caratterizzati da un’efficienza energetica significativamente minore, alti costi di produzione e costi di esercizio considerevolmente maggiori, rispetto ad un’auto elettrica a batteria. Inoltre, questi carburanti, tuttora lontani dalla commercializzazione, non risolvono il problema della qualità dell’aria: essendo chimicamente simili a diesel e benzina, – la loro combustione continua ad immettere ossidi di azoto (NOx) tossici in atmosfera. Tali problemi strutturali, che li rendono meno competitivi sul piano economico, pratico e dal punto di vista dei benefici ambientali, limitano il loro utilizzo a quei settori per i quali l’elettrificazione non rappresenta un’opzione percorribile, come l’aviazione o il trasporto marittimo di lunga distanza. Per questo motivo il Consiglio UE, malgrado la pressione senza precedenti delle lobby dei fossili veicolata dai governi più conservatori, ne ha escluso la possibilità di utilizzo dopo il 2035 all’interno del nuovo Regolamento sugli Standard di CO2 per auto e furgoni, relegando (potremmo definirlo un contentino) la loro presenza a una nicchia di mercato rappresentata, dopo il 2035, da quei veicoli che non ricadono all’interno del Regolamento, come ad esempio le ambulanze e i mezzi dei vigili del fuoco. Anche se questa decisione deve ancora essere confermata in via definitiva a conclusione della fase trilaterale, appare già fuor di dubbio che puntare sullo sviluppo a livello industriale degli e-fuels per il mercato automobilistico in alternativa all’elettrico sarebbe un grave errore strategico. I dati di mercato, del resto, parlano chiaro: la maggior parte dei costruttori ha annunciato la fine della produzione delle auto endotermiche già al 2030. Nel frattempo, la quota di mercato dei veicoli elettrici in Europa è aumentata esponenzialmente passando dall’1,4% del 2017 al 19% del 2022. La fin troppo invocata neutralità tecnologica non fa altro che creare incertezza di investimento per le industrie e le amministrazioni, disorientamento per i consumatori, e dispersione delle risorse pubbliche, facendoci perdere tempo prezioso nel processo di decarbonizzazione
Verso un monopolio cinese delle batterie?
Attualmente sono 38 le gigafactory in cantiere o già annunciate nel Vecchio Continente (tra queste il maxi impianto Stellantis di Termoli) al punto che, secondo le stime, l’Unione Europea potrebbe raggiungere la piena indipendenza dalle importazioni di esemplari asiatici già il prossimo anno con una produzione di batterie nostrane per circa 320GWh . Se i 38 progetti annunciati vedranno la luce, si stima che la produzione salirà a circa 460GWh nel 2025 per arrivare a 1144GWh nel 2030. Ciò consentirà di inserire saldamente l’Europa nella nuova mappa globale dei produttori di batterie, con ben un quinto della produzione mondiale di celle nel 2025, seconda solo alla Cina.
I costi sono destinati a scendere
Il principio è quello classico dell’economia di scala: l’aumento della produzione riduce i costi unitari di quest’ultima consentendo ai costruttori di praticare prezzi via via inferiori. La concorrenza, da parte sua, stimola ulteriormente il calo dei valori di mercato accelerando così il processo. È stato così per le auto tradizionali, che da strumento di lusso, quali erano nella prima metà del secolo scorso, si sono trasformate nei decenni successivi in una risorsa alla portata di tutti. E sarà così anche per i veicoli elettrici.
Secondo le stime di Bloomberg New Energy Finance il costo di produzione dei mezzi a batteria pareggerà quello della controparte a combustione per i segmenti maggiori (furgoni, e auto di stazza grande e media) nello spazio di 3-6 anni. Il trend, ovviamente, è destinato a proseguire tanto che, secondo Bloomberg, alla fine del decennio, un’auto elettrica costerà mediamente al suo produttore il 18% in meno rispetto al suo esemplare equivalente a benzina. A patto, precisa l’analisi, di implementare le giuste politiche per la diffusione dei veicoli elettrici a livello europeo e nazionale.
Senza dubbio controproducenti si rivelano a tal scopo quelle politiche incoerenti sul fronte della domanda, come il recente “piano auto[2] per gli incentivi all’acquisto di veicoli “non” inquinanti (Sic) del Ministro Giorgetti che fa dell’Italia l’unico Paese in tutta europa a sostenere con milioni di euro dei contribuenti l’acquisto dei veicoli del passato. Per contro sarebbe invece urgente incentivare l’elettrificazione delle flotte aziendali, peraltro escluse dall’incentivo nell’ambito dello stesso decreto, al punto che verrebbe da chiedersi se non sia in atto un vero e proprio tentativo di sabotaggio del mercato elettrico a favore di quello fossile. L’elettrificazione delle flotte, particolarmente favorevole grazie all’elevato chilometraggio giornaliero che le caratterizza, porta con sé il potenziale importante di creare un mercato di seconda mano in tempi relativamente brevi, contribuendo ulteriormente alla diffusione della nuova tecnologia a favore delle famiglie meno abbienti. Auspicabilmente una leva fiscale mirata sarà oggetto della prossima legge di Bilancio.
Su infrastrutture di ricarica e batterie la politica ha un ruolo decisivo
Il nuovo Regolamento europeo in via di definizione introdurrà l’obbligo di costruire infrastrutture di ricarica ogni 60 km lungo la rete che include le principali arterie autostradali e le superstrade italiane è un ottimo punto di partenza. Al tempo stesso sarà necessario stimolare lo sviluppo di una rete di ricarica privata “casa e lavoro” che, secondo le previsioni coprirà da sola circa il 75% delle ricariche. In questo senso, le politiche intraprese finora dal Governo non sono state soddisfacenti. Ci si chiede ad esempio perché i 90 milioni allocati dal DL Agosto a favore di aziende e professionisti per l’installazione di sistemi di ricarica non siano ancora stati sbloccati. O perché non si sia ancora deciso di valorizzare la componente rinnovabile dell’elettricità usata per ricaricare i veicoli elettrici all’interno della Direttiva Energie Rinnovabili, come stanno già facendo Olanda, Francia e Germania.
L’auto elettrica non crea disoccupazione, ma è necessario accompagnare la transizione
Il 25 marzo di quest’anno, a valle di una giornata di convegno nella camera del lavoro di Torino, la CGIL Piemonte ha firmato un documento congiunto insieme alla FIOM, all’associazione industriale Motus-E e ad alcune delle principali organizzazioni ambientaliste italiane invocando esplicitamente l’accelerazione della transizione elettrica nel settore dei trasporti. Nel testo si riconosce come, lungi dal salvaguardare l’occupazione, qualsiasi slittamento degli obiettivi favorirà (lungi dall’evitarla) la perdita di posti lavoro. La presa di posizione del sindacato ha un significato estremamente rilevante perché contrasta con le narrazioni catastrofiste che vedono nella decarbonizzazione del comparto una fonte di crescente disoccupazione.
Questa non è la prima transizione che ci troviamo ad attraversare. Molte sono passate e molte altre verranno. Ciò che la storia ci ha insegnato è che la chiave alla base di transizioni di successo è anticipazione, pianificazione e gestione pro-attiva supportata da mirati strumenti finanziari. Significativo è l’esempio della regione di Limburg in Belgio, che ha assistito a una completa dismissione delle miniere di carbone tra il 1965 e il 1975 e a una ristrutturazione economica regionale iniziata prima dell’avvio della dismissione e tuttora in corso. Dopo la chiusura della prima miniera, è stato aperto un grande stabilimento della Ford Motor Company. La gestione proattiva ha garantito la riqualificazione della forza lavoro e l’attrazione di altre attività industriali legate alla produzione di automobili e alla logistica. Limburg (che ha subito una seconda grande transizione con la chiusura della stessa Ford nel 2014) ha poi continuato a trasformarsi e diversificare la sua economia. Quella che una volta era una regione industriale basata su un’economia fossile oggi è un polo tecnologico innovativo, con un mix di imprese del settore delle nuove tecnologie, aziende di energia pulita e industrie di servizi.
Strumento chiave per la corretta gestione della transizione, la pianificazione pro-attiva necessita a sua volta di una roadmap definita e univoca, di date chiare e di obiettivi condivisi. Per questo l’approvazione del 2035 come data comune europea per l’alt all’immissione nel mercato di nuove auto convenzionali è un’ottima notizia che non potrà che giovare ad un management efficace della transizione.
Per l’industria italiana dell’automobile si tratta di una storica occasione per (finalmente) rilanciarsi, innovandosi e uscendo da un torpore che dura oramai da 20 anni, durante i quali, l’automotive italiano, con una produzione di auto che è passata da circa 1,5 milioni di auto a meno di 500.000 unità, si è accontentato di essere sempre di più la coda delle produzioni europee.
Il nuovo ecosistema della mobilità elettrica apre moltissime opportunità a livello industriale. Secondo lo studio del Boston Consulting Group, il più granulare esistente oggi in materia, il bilancio in termini di posti di lavoro persi e guadagnati con il passaggio industriale alla e-mobility in Europa nel 2030 sarà neutro. A compensare il calo del numero di individui necessari all’assemblaggio dei veicoli è l’incremento degli impieghi nell’intero ecosistema dell’auto elettrica (realizzazione e assemblaggio di celle di batterie, infrastrutture di ricarica e relative opere civili, produzione delle energie rinnovabili, filiera del riuso e del riciclo). Ma numeri aggregati europei possono mascherare differenze regionali importanti. Per questo è necessario un intervento di tutela che si focalizzi sulla mappatura delle zone a rischio di maggiore perdita di posti di lavoro e l’istituzione di un fondo mirato per la riconversione dell’automotive. Una proposta, quest’ultima, già votata a maggioranza dal Parlamento Europeo l’8 giugno scorso e che auspicabilmente sarà rafforzata nel testo finale che verrà approvato a valle del trilogo.
[1] Dei settori afferenti all’effort sharing regulation (Trasporti, Residenziali, Agricoltura, Rifiuti)
[2] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 aprile 2022 – Riconoscimento degli incentivi per l’acquisto di veicoli non inquinanti
Questo articolo è stato pubblicato inizialmente su QualEnergia, uscita di Luglio 2022.
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