Il piano di Ripresa italiana di 248 miliardi (191 da Recovery, 31 da fondo complementare e ulteriori 26 miliardi per la realizzazione di opere specifiche) non è un piano significativo per il clima; non riesce a identificare nei settori della decarbonizzazione il volano per la ripresa economica sostenibile e non è incisivo nell’allocazione delle risorse e nelle riforme per innovare i settori pilastro della decarbonizzazione: questo il giudizio della organizzazioni ambientaliste WWF, Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club e Transport & Environment (T&E).
Le risorse classificabili come ‘verdi’ appaiono marginali nella transizione energetica e scollegate da una strategia climatica. Le spese, anche quando indirizzate nei settori giusti, non rispondono a valutazioni di impatto e criteri di efficacia rispetto agli obiettivi.
Gli ambientalisti rilevano anche:
Infine, WWF, Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club e Transport & Environment (T&E) sottolineano che il PNRR indica un obiettivo di decarbonizzazione per l’Italia al 2030 del 51% senza che questo appartenga in alcun modo a strategie o policy nazionali pubbliche e concordate a livello europeo o internazionale.
Il budget dedicato alla rivoluzione verde prevede 59,33 dal PNRR a cui si aggiungono 9,12 del fondo complementare per un totale di 68,45.
È una spesa significativa. Vediamo quanto e se è efficace rispetto ai pilastri centrali della decarbonizzazione come descritte nelle flagship delle raccomandazioni della Commissione:
Il contenuto più rilevante del PNRR è la proposta di riforma del sistema delle autorizzazioni, potenziamento di investimenti privati, incentivazione di meccanismi di accumulo ed incentivazione di investimenti pubblico privati, sulla cui voce, però non viene identificato budget. Speriamo sia la volta buona e non l’ennesima promessa perché è 10 anni che le rinnovabili sono al palo in Italia.
Per mantenere la traiettoria di decarbonizzazione, l’Italia deve incrementare lo sviluppo delle rinnovabili per circa 6000MW anno. Lo stesso Ministero Transizione Ecologica ambisce ad una penetrazione delle FER al 72% al 2030 rispetto al 35% attuale. Tuttavia il PNRR prevede risorse per soli 4000 MW, per le comunità energetiche e l’agri-voltaico, per tutta la durata del Piano. In entrambi i casi non sono previste riforme sulla regolazione e la fiscalità energetica che permetterebbero di trasformare l’incentivo in una politica di sviluppo. Solo 200 MW con 0,68Mld sono destinati per lo sviluppo di rinnovabili incluso l’eolico off-shore.
Manca la mobilitazione degli investimenti privati ed in particolare del comparto industriale.
Il piano fa riferimento unicamente ai tetti delle aziende agricole per 4,3 kmq. E le industrie, e le imprese, i capannoni industriali, le aree dismesse, le aree degradate, i 9000 kmq di aree industriali? Mancano risorse e strumenti per attivare questi potenziali a partire dagli strumenti fiscali.
Le fonti rinnovabili non sono necessariamente intermittenti e non prevedibili: basta stoccare l’energia nelle ore di punta e utilizzarla quando serve, attraverso le batterie e altri sistemi di accumulo. Così non ci sarebbe alcun bisogno delle fonti fossili, nemmeno del gas. Il PNRR è incerto nello sviluppo degli accumuli elettrochimici, per cui c’è solo una voce di 1Mld da spartire con lo sviluppo delle tecnologie rinnovabili. È assente lo sviluppo del pompaggio idroelettrico, non incluso né nel budget, né nelle riforme né nelle proposte di regolazione e di strumenti di finanza per incrementarne la capacità. Eppure il Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC), nella sua versione non ancora aggiornata, identifica un obiettivo di 10 GW di nuovi accumuli al 2030. Non è visibile un contributo sostanziale dal PNRR a tale obiettivo.
Più significativo l’impegno per lo sviluppo dell’idrogeno, 3,64Mld. Tuttavia scompare l’etichettatura ‘verde’ dalla definizione dell’idrogeno e questo introduce qualche ambiguità rispetto alla possibilità di produrre idrogeno blu, soprattutto nel settore della chimica. L’idrogeno va usato solo nei settori in cui è effettivamente necessario, e deve essere ricavato con fonti rinnovabili, su questo bisogna scegliere.
Il totale sull’efficienza energetica stanziato è di 22,26 Mld di cui 15,54 da PNRR e 6,72 da fondo complementare. Circa 20 Mld sono indirizzati all’efficienza energetica negli edifici attraverso la copertura dell’ecobonus 110%. Nulla è dedicato all’efficienza nell’industria nonostante l’immenso potenziale di risparmio ed i benefici economici associati. Al sistema produttivo vengono allocati 31 Mld senza citare l’energia e l’efficienza. Affidarsi unicamente al 110% significa solo edilizia e rinunciare a fare leva sugli investimenti privati soffocando le possibilità espansive della strategia e le possibilità di decarbonizzare i nostri consumi. Il meccanismo ha noti limiti come la richiesta di miglioramento di solo 2 classi energetiche invece di più stringenti obiettivi di reale efficienza. Si continua a incentivare anche tecnologia fossile quali le caldaie a gas.
Il 110% include l’edilizia popolare ma il meccanismo non assicura l’efficientamento di questo settore che richiede da solo investimenti per 15-20 Mld. Drasticamente tagliato il budget per le scuole da 6,42 Mld a 0,8 Mld. 3,9Mld sono rintracciabili nel budget di ristrutturazione dell’edilizia scolastica senza però porre l’efficienza energetica come obiettivo prioritario.
È importante sottolineare che le risorse investite in efficienza energetica nel settore pubblico permettono di ridurre la spesa energetica futura, restituendo al paese, ad al suo insostenibile debito, i soldi disponibili con il PNRR. Peccato il PNRR non abbia colto questa occasione.
In materia di trasporti il Piano Draghi fallisce sia nel mettere l’Italia sulla strada giusta per centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 del settore, sia nell’avviare la green andjust transition del settore automotive italiano, in crisi già da prima della pandemia e soprattutto per mancanza di innovazione.
Il piano manca completamente l’obiettivo di sviluppo della mobilità elettrica, misura cruciale per la decarbonizzazione dei trasporti. In totale controtendenza rispetto ai principali stati membri, vi dedica meno dell’1% del fondo, contro oltre il 25% circa della Germania ed il 10% della Spagna. Solo €0,74 miliardi vengono destinati al dispiegamento di 21.355 punti di ricarica, sui 3,4 milioni di infrastrutture (tra pubbliche e private) necessarie per rispettare l’obiettivo previsto dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima di 6 milioni di auto elettriche al 2030. Obiettivo, peraltro, che sarà difficile centrare vista l’assenza nel Piano di altre misure abilitanti.
Per lo sviluppo della catena di valore della mobilità elettrica viene stanziato solo mezzo miliardo di euro alle batterie, insufficiente per assicurare un ruolo al nostro paese nella rivoluzione elettrica del trasporto su strada, esponendo il Paese a gravi ripercussioni economiche e sociali. Parte della strategia italiana per la mobilità, al contrario, contempla la garanzia di SACE-CDP a FCA per 6,3Mld di prestito senza alcuna condizionalità rispetto alla transizione elettrica per effetto del decreto liquidità del 2020. Unica risorsa per lo sviluppo della mobilità elettrica nel PNRR deriverebbe delle smart grid (3,6Mld), che prevedono il rafforzamento della rete elettrica urbana.
Il PNRR non ha una visione per le città, responsabili della maggior parte delle emissioni di CO2 e degli inquinanti locali. Esse dovrebbero essere le protagoniste di un nuovo sviluppo resiliente e sostenibile, con al centro i trasporti che vengono invece “liquidati” con soli 8,58 miliardi. Una dotazione insufficiente per colmare il deficit italiano di investimenti sul trasporto rapido di massa, al rinnovo della flotta bus e treni e allo sviluppo della ciclabilità. Si punta alla realizzazione di soli 85 km di reti tramviarie, 120 km di filovie, 11km di metro, 1820 km di ciclabili (di cui soli 560 km a livello urbano) e 3360 nuovi bus, dove peraltro la vaga descrizione di “bus a basse emissioni” non dà alcuna garanzia di acquisti “verdi”. Per attuare i Piani Urbani della Mobilità Sostenibile, già approvati e in attesa di fondi per essere realizzati, e dare una svolta alla mobilità sostenibile italiana servirebbero invece almeno 150km di reti tranviare, 5.000km di ciclabili urbane e 10.000km di ciclabili extra-urbane, almeno 15.000 nuovi autobus elettrici.
I fondi si concentrano sulle grandi opere con circa 13 miliardi destinati all’Alta velocità Ferroviaria su 24,77 miliardi dedicati a nuove ferrovie, in aggiunta ai quali sono stati annunciati dal Presidente Draghi, ulteriori miliardi per la super alta velocità Salerno – Reggio Calabria, impegnati dall’ulteriore fondo per investimenti di 26 miliardi. Solo 9,53 miliardi (7,8mld da Recovery e 1,73 da fondo complementare) sono destinati ai nodi metropolitani e alle ferrovie regionali del Paese dove gravitano milioni di cittadine e cittadini ogni giorno.
Le risorse classificate come economia circolare sono unicamente indirizzate al trattamento dei rifiuti, incluso il trattamento chimico che per alcuni processi risulta potenzialmente dannoso per l’ambiente. La componente del rifiuto è solo una parte dell’economia circolare che include il design, la realizzazione del prodotto, la ricerca di nuovi materiali ad impatto zero e completamente riciclabili. Queste parti dell’economia circolare più significative per la decarbonizzazione e per lo sviluppo dell’industria e delle PMI italiane non sono incluse nel Piano.
Il comparto agricolo è il grande assente dalla “transizione verde”, in particolare la zootecniaintensiva. Da un lato non sono previsti investimenti e misure concrete per ridurre il numero dei capi allevati, passaggio necessario per mitigare realmente gli impatti ambientali del settore, dall’altro viene dato ampio spazio allo sviluppo del biometano, una tecnologia che potrebbe contribuire alla decarbonizzazione, ma che in assenza di una politica agricola orientata alla riduzione dei capi allevati, rischia addirittura di provocarne l’aumento. Con relative conseguenze su ambiente e salute, soprattutto in aree già fortemente colpite dagli impatti del settore zootecnico intensivo. Ricordiamo, ad esempio, che le grandi quantità di ammoniaca provenienti dagli allevamenti intensivi li classificano come seconda causa di formazione di polveri sottili in Italia.
Nessun investimento per incrementare la superficie agricola dedicata all’agricoltura biologica – come peraltro indicato anche dalla strategia europea Farm to Fork – o di investimenti in agroecologia per ridurre gli impatti del settore agricolo e creare valore aggiunto alle produzioni nazionali. Puntando unicamente sull’agricoltura di precisione, il settore non può compiere la transizione necessaria dato che non è questo l’obiettivo dell’agricoltura di precisione, ma quello di una “gestione aziendale” finalizzata ad una molteplicità di scopi, come l’aumento dell’efficienza produttiva ed economica, che solo in alcuni casi possono essere accompagnati anche da benefici ambientali. L’agricoltura di precisione, inoltre, si basa su livelli tecnologici che rischiano di mettere ancora più in difficoltà le piccole aziende.
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